Capita molto spesso, girovagando tra i post social e gli articoli dei principali quotidiani, di leggere che il reddito di cittadinanza sarebbe la causa di tutti i mali del sistema economico italiano e delle dieci piaghe d’Egitto. Visto che pochissimi esponenti politici di sinistra, soprattutto nel più grande partito dello schieramento, cercano di confutare una narrazione malata contro il reddito di cittadinanza, provo io ad assumermi la responsabilità di rispondere a quelle critiche, fornendo alcuni dati a supporto delle mie argomentazioni.
Il reddito di cittadinanza è uno strumento che non è perfetto, presenta dei limiti, alcuni dovuti al contesto politico in cui lo strumento è stato approvato, altri dovuti all’inesperienza dell’allora ministro Di Maio. Già a partire dal nome si incontra un limite importante: infatti, benché il nome comunichi il contrario, il reddito di cittadinanza non è un reddito di base universale, ossia il trasferimento di una somma di denaro in favore di tutti i cittadini di un determinato Stato, ma un reddito minimo garantito e uno strumento di integrazione salariale. Non è solo la struttura normativa di costruzione a confermarlo, ma anche la messa a terra e l’analisi empirica a posteriori. Questo significa che possono accedere al sussidio solamente quelle persone che non raggiungono una determinata soglia di ricchezza economica. Da un punto di vista comunicativo e politico, aver battezzato un reddito minimo garantito reddito di cittadinanza è stato devastante: ha fatto sì che lo strumento prestasse il fianco alla campagna di disinformazione secondo cui i percettori preferiscono passare la propria giornata sul divano anziché lavorare.
Da sinistra, le critiche non possono accodarsi a questa narrazione, ma devono essere circostanziate e puntuali. L’analisi empirica ha confermato quello che la sinistra aveva teorizzato anni prima: i paesi con uno stato sociale forte, con un sistema di protezione dei più deboli, sono quelli economicamente dinamici e quelli in cui la mobilità sociale è più accentuata. Il welfare non produce alcun ostacolo per il mercato. Occorre, quindi, soffermarsi sulla struttura dello strumento, piuttosto che sulla sua utilità.
Il primo problema è la costruzione del reddito di cittadinanza in due fasi: una di welfare e una legata alle politiche attive del lavoro. Tale struttura in due fasi è dovuta al contesto politico in cui il reddito di cittadinanza nasce, un contesto politico che vedeva una forza di estrema destra al governo, un ministro del lavoro di area moderata e una sinistra assente dal dibattito sui diritti sociali. Tengo subito a sottolineare che il reddito di cittadinanza avrebbe dovuto essere uno strumento di solo welfare, costruito per colpire tutte le sacche di povertà presenti nel nostro sistema economico.
Il dato da cui partire è capire perché i cittadini italiani divenuti più poveri, il dato dei salari. L’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari sono diminuiti negli ultimi 30 anni. Le motivazioni principali si rinvengono nelle campagne di precarizzazione del lavoro e di deflazione salariale che, dalla seconda metà degli anni ’80, si susseguono in Italia. La tesi seguita è stata quella secondo cui i lavoratori avrebbero dovuto guadagnare volontariamente meno, rinunciando alla stabilità del lavoro e alle rivendicazioni salariali, per favorire l'occupazione e far lavorare più persone. L’analisi empirica ha, però, confutato questa tesi, sottolineando che la precarizzazione del lavoro e le politiche di compressione dei salari hanno prodotto una minore sindacalizzazione dei lavoratori italiani, stagnazione economica e una conseguente riduzione delle tutele del lavoro e dei lavoratori (http://www.unife.it/economia/lm.economia/insegnamenti/economia-del-lavoro-e-dellinnovazione/flessibilita-del-lavoro-occupazione-e-disoccupazione-innovazione/emiliano-brancaccio-raffaele-giammetti-le-riforme-strutturali-del-mercato-del-lavoro-promesse-politiche-ed-evidenze-empiriche/view). Leggendo i grafici, si nota come queste ricette di politica economica, nate negli anni di governo di Thatcher e della reaganomics (gli anni della contro-egemonia liberale) e continuate durante il periodo dell’austerità etero-imposta, hanno portato l’Italia (così come tutto il mondo occidentale) in un terreno in cui le disuguaglianze e i tassi di povertà assoluta sono cresciuti, in particolar modo nei ceti operai e lavoratori.
Per gli stessi motivi, l’Italia è il sistema economico che, fra i grandi, ha sofferto di più le crisi economiche degli ultimi due decenni. Le ricette economiche di austerità e di tagli alla spesa pubblica hanno prodotto l’effetto opposto di quello auspicato. Il nostro tessuto economico, sia per la sua conformazione (siamo uno dei sistemi con più piccole e medie imprese), sia per la scarsa capacità di innovazione e di creazione di mercati dovuta in primo luogo ai continui tagli alla R&S, vive una fase di stagnazione economica che dura da moltissimi anni. Siamo il paese con uno dei tassi di occupazione in Europa più bassi, mentre il tasso di disoccupazione è tra i più alti. A confermare il declino e la scarsa capacità di ripartenza del sistema ci pensano i dati sulla crescita del Pil italiano da leggere, prima che con le lenti dell’economista, con quelle dello storico. Il nostro prodotto interno lordo è quello che è cresciuto meno a confronto con gli altri grandi paesi dell’Unione europea ed è quello che ha sofferto di più i crolli causati dagli shock degli ultimi anni (crisi economiche e finanziarie, pandemie, ecc.). Pertanto, è doveroso esser chiari e affermare che la fase delle politiche attive del lavoro è piuttosto una cura palliativa di un male ben più grande. Il problema non è l’incapacità dei singoli percettori del reddito di cittadinanza di incrociare la domanda di lavoro richiesta dalle imprese, ma la mancanza di domanda di lavoro, soprattutto nei settori economici a più alto valore aggiunto.
Alla luce di questi dati, è facile concludere che il reddito di cittadinanza, nella sua funzione di reddito minimo garantito e di integrazione salariale per i lavoratori più poveri, sia uno strumento necessario in un paese che ha visto diminuire sempre di più il benessere economico dei propri cittadini; allo stesso tempo, è importante, però, proporre una riforma dello strumento che lo rafforzi e spingersi oltre le politiche economiche degli ultimi anni per uscire dalla fase di declino che ci attanaglia. Si deve incidere sui requisiti di accesso, i quali prevedono delle assurde limitazioni per i cittadini stranieri che vivono in Italia, e sulla scala di equivalenza, la quale prevede delle somme in proporzione minori per i nuclei familiari formati da più componenti. È fondamentale farlo per attaccare le sacche di povertà ancora presenti ed eliminare tutte le situazioni di emarginazione e disagio, le quali distruggono ogni principio di dignità e provocano un danno anche per il nostro sistema economico. Invertire la rotta è ancora possibile, ma significa mettere in discussione tutto il modello di sviluppo che si è affermato da quaranta anni a questa parte. Sono necessari investimenti pubblici - tanti investimenti pubblici - coordinati con una traiettoria economica e culturale ben definita, misure di politica industriale e con una riforma globale del lavoro e delle tutele dei lavoratori (salario minimo, efficacia erga omnes dei contratti collettivi, workers buyout, ecc.). Solamente così è possibile aumentare il tasso di occupati, diminuire il numero di disoccupati e ricostruire un sistema economico più dinamico ed efficiente. Piuttosto che contestare l'utilità del reddito di cittadinanza, è questo che la sinistra dovrebbe fare.