La difficoltà e la sfida di essere “noi”

Pubblico una riflessione di Massimo Giorgi, presidente di MenteLocale (associazione politica di cui sono fondatore), studente di scienze politiche alla Sapienza – Università di Roma, nonché mio grandissimo amico, sulle difficoltà di associarsi e di avere una identità collettiva.

A fronte di quanto successo nelle ultime settimane, immaginando anche quello che succederà, vi è il bisogno di rinnovare e condividere una riflessione essenziale: la difficoltà e la sfida di essere un “noi”. 

In una società atomistica, ricca di individualità e di egoismo, nella quale non esistono reali identità collettive, scegliere di formare o far parte di un gruppo, sia esso un’associazione o un partito, non è affatto facile. Non lo è perché la condivisione di idee, esperienze e azioni avviene quasi sempre ad un livello superficiale, improntato su astratti fini generici e, quasi mai, affrontando la questione dei mezzi.

Fare parte di un gruppo non è facile perché ciò che ci fa decidere di essere parte dello stesso, a volte, segue logiche particolari e/o è facilmente ascrivibile a un nuovo, personale e improvviso obiettivo, a una nuova e personale necessità contingente. Il punto focale rimane sempre lo stesso: in un contesto nel quale non siamo più educati alla comunità, alla condivisione di lungo periodo, alla sintesi degli obiettivi e dei mezzi, lo sforzo più grande da compiere è quello di riuscire a cedere fiducia. Prima ancora della discussione dell’oggetto dell’appartenenza, della decisione di tesserarsi, di militare o di non farlo, è fondamentale la comprensione della difficoltà della sola accettazione della prospettiva associativa. In breve, la risposta alla domanda: cosa significa associarsi con altre persone?

Molti sono convinti che il gruppo sia la somma dei suoi appartenenti, affermando così la supremazia della singolarità, bramosa di sentirsi comunque decisiva e protagonista. Ma le cose non stanno così. Il gruppo è la sintesi di chi ne fa parte, come se tutti gli interessi, i valori e le esperienze personali si sciogliessero e, dopo un’attenta mediazione, trovassero una nuova forma in una sola singola identità collettiva. Il singolo si trova a guadagnare e a cedere qualcosa nello stesso identico momento. La cosa più intima che si trova a cedere è fiducia: rinuncia ad avere l’esclusiva potenza decisionale, spostandola all’interno del gruppo e dei suoi organi. Cedere fiducia nel contesto della nostra società diviene un atto di coraggio e mediare l’oggetto sul quale si basa questa cessione un atto rivoluzionario.

In politica, che poi è l’argomento sul quale si innesta la riflessione, si ritrovano due tipi di persone: chi accetta la scommessa e, con estrema difficoltà, cerca di ri-educarsi, di rifiutare il contesto nel quale si trova e chi, invece, sottoscrive e sottolinea l’odierno, affermando che la realtà è modellata dai singoli e che la verità si esaurisce attraverso un’unica interpretazione percepita attraverso una sola e singola esperienza.

È assolutamente legittimo scegliere di far parte dei secondi, ma viene facile notare dei punti di collisione. Quello che crea sicuramente un po’ di nervosismo è chi non riesce ad avere contezza delle sue scelte rispetto a ciò, chi si sente incastrato in qualcosa che esso stesso sceglie e chi vuole continuamente ridurre sintesi collettive a prevaricazioni della libertà personale.

Chi scrive, invece, si sente parte integrante della prima visione, ma riconosce alcune critiche come lecite. Chi critica la visione collettiva della partecipazione, come chi rimprovera una fantomatica nostalgia di un modo di fare antiquato o chi rimprovera un modello, a loro avviso, non proponibile all’interno della nostra società, muove delle critiche, per certi versi, sensate. Ad esempio, molti spiegano che in una società veloce come la nostra, dove la massima emozione viene ricercata nel minore tempo possibile, il gruppo introduce elementi aggiuntivi di complessità e di inefficienza. Li introduce, proprio per quanto detto sopra, nel campo della decisione dove il singolo è sicuramente il più efficiente, non deve mediare con nessuno, ha a disposizione la sua interpretazione della realtà e i suoi interessi. Il gruppo, al contrario, ha bisogno di tempo, forse l’unico e vero bene scarso in realtà, per organizzarsi, per decidere e per agire.

Su questo, però, la “critica alla critica” dovrebbe sforzarsi di riscoprire e mostrare tutti i guadagni, sia in termini della tanto abusata efficienza e sia in termini di efficacia, restituiti dall’interpretazione, della decisione e dall’azione prodotti dalla sintesi di un gruppo. Guadagni non solo in termini di raggiungimento degli scopi e di accuratezza della decisione, ma anche guadagni sociali, addirittura sanitari ed economici.

In ogni caso, la scelta è politica e deve essere chiara: o si fa parte di qualcosa, al netto di assurdità e derive, con tutti gli oneri e gli onori, oppure non si fa parte e si decide di intraprendere autonomamente un percorso, seguendo la propria singolarità o quella di altri. Vero è che interpretarsi nel contesto dell’azione politica e sociale come non essenziali, non protagonisti e oggettivamente incompleti stoni totalmente con la nostra educazione e con l’aspettativa che questa società iper-competitiva ha di noi. Nell’eterna gara quotidiana, dove siamo tutti continuamente drogati da esempi di “chi ce l’ha fatta” e siamo tutti spinti dalla falsa promessa della possibilità e nella necessità di arrivare primi, pensare qualcosa di diverso è complesso, un vero e proprio sforzo interpretativo. Uno sforzo quasi paradossale, perché non serve andare storicamente lontano per conoscere modelli partecipativi anche molto avanzati espressioni di collettività ben definite. Certo, il contesto era diverso. Per questo la sfida infatti è cercare di rimodulare i principi e i valori fondanti di una esperienza passata all’attuale stato di cose. Iniziare a guardare al passato non nella finitezza della sua esperienza, ma come un interlocutore pronto a restituirti le basi per il futuro.

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