Pubblico una riflessione di Massimo Giorgi, presidente di MenteLocale (associazione politica di cui sono fondatore), studente di scienze politiche alla Sapienza – Università di Roma, nonché mio grandissimo amico, sulla scelta di molti amministratori locali di autodefinirsi amministratori e non politici.
Parlando con alcuni amministratori locali o regionali, non è raro imbattersi nell’affermazione «Sono un amministratore, non sono un politico». Una frase alla quale ormai siamo abituati e che si porta dietro una latente ipocrisia. Nonostante questo, è indubbio che riscuota un discreto successo e che venga usata più o meno coscientemente dagli attori politici come dispositivo di consenso. Posta quindi la realtà per come è espressa, è importantissimo riflettere su tali parole e confutarle.
È doveroso avvisare il lettore che la destrutturazione della sfera politica e la negazione della stessa rispecchia una tendenza internazionale decennale derivante da riflessioni ben più complesse e riguardanti sia il ruolo e la percezione della politica in generale, sia il suo rapporto con la scienza. A fronte di ciò, la frase oggetto di questo articolo deve considerarsi certamente come espressione di questo dibattito. Allo stesso modo, però, non sono questi i temi oggetto di questa riflessione, che invece vuole concentrarsi nel merito dell’affermazione e dei suoi utilizzi.
«Sono un amministratore, non sono un politico» è un dispositivo linguistico essenzialmente usato per escludersi dalla sfera politica e dai suoi protagonisti, rinnegando l’azione politica che lo stesso amministratore svolge (anche non coscientemente) e collocandosi stabilmente in un certo modo di pensare che è tutt’altro che apolitico. L’esigenza di escludersi da quell’insieme può essere fatta risalire alla scarsa considerazione che i cittadini hanno della politica e dei politici; una bassa reputazione che viene da lontano e sulla quale la bassa qualità della classe politica riveste un ruolo centrale. Questa esigenza diventa poi opportunità elettorale: il definirsi fuori dalla sfera politica aspira a restituire un senso di unità, di azione guidata solo dall’interesse comune e non di parte, di neutralità e serietà.
A questo proposito, aggiungendo un grado di complessità ulteriore, c’è da dire che non tutti i partecipanti alle competizioni politiche utilizzano questo stratagemma e chi lo utilizza lo fa essenzialmente per due ordini di ragioni: utilitaristicamente o convintamente. Nel primo caso rientrano tutti quelli che usano la frase oggetto della riflessione, anche non essendovi d’accordo, solo per espandere il proprio elettorato. Nel secondo caso, rientrano invece, tutti quelli che sono convinti che si possa superare la conflittualità politica e le parti in nome di un generico e unico bene comune e nella convinzione che l’importante sia “fare”.
Tolta però questa specificazione e andando nel merito della suddetta espressione, è davvero possibile contrapporre le figure dell’amministratore (ad es. comunale) e del politico? Mentre è pacifico affermare che entrambe le figure possono convivere ed essere compresenti in un soggetto, l’amministratore può non essere (un) politico?
Anzitutto, per escludere la politicità della propria azione amministrativa non basta essere eletto in una lista civica o non possedere la tessera di partito. Insomma, se ufficialmente risulta essere facile escludersi dalla categoria del politico di professione, non tanto facile risulta farsi riconoscere come non-politico e “sopra le parti, mosso solo dall’interesse di tutti i cittadini”, per almeno due ordini di motivi: è impossibile essere neutrali nell’offerta, specialmente nell’amministrazione della cosa pubblica ed è impossibile esserlo nella domanda perché gli interessi dei cittadini sono confliggenti.
Dire e convincersi di essere soltanto un amministratore genera irrimediabilmente delle conseguenze non di poco conto, sia interne ad una amministrazione, sia esterne nel rapporto con i cittadini. Molto spesso questo strozza il dibattito o addirittura lo nega. Nel primo caso, osservando attentamente, si può rilevare addirittura un “modo autoritario” dato dalla totale e volontaria preclusione alla discussione di qualsivoglia azione alternativa alla propria, giudicata aprioristicamente migliore in efficienza. Altre volte, lo scollamento delle due figure (amministratore e politico) porta a delle conseguenze che potremmo definire di secondo grado, a causa delle quali viene meno anche il sano e costruttivo rapporto tra eletto ed elettore e, nel quale, il primo si percepisce in tutto e per tutto migliore del secondo, un’élites che si va a configurare più verso i criteri tecnici dell’amministrazione pubblica e che perde tutto il portato della sfera politica, fatta di mediazione degli interessi, contemperazione e scelta dei mezzi e dei fini da perseguire.
Al contrario di quello che il contesto politico odierno ci restituisce, non esiste un unico modo di amministrare la cosa pubblica e, anche qualora fosse concordante il fine di due diverse forze politiche o due amministratori, i mezzi per realizzarlo possono essere estremamente differenti. La scelta dei mezzi, ad esempio, è un fatto prettamente politico. Non solo, ognuno di noi ha un proprio portato di valori e di interessi, ogni nostra azione corrisponde ad una interrogazione ed una sintesi degli stessi, che restituisce una decisione più o meno coerente. Quindi come può, una persona scelta sulla base di un’elezione e non sulla base di conoscenze tecniche misurabili, rinnegare il suo essere politico in tutto e per tutto?
La risposta è semplice, tutt’altro che provocatoria, ed è la seguente: può farlo, in quanto definirsi apolitico è una scelta politica. Questa risposta può essere percepita come fuorviante, ma ragionandoci, considerarsi apolitici, vista l’impossibilità di esserlo, diviene una scelta squisitamente arbitraria, quindi politica. Allo stesso modo, credere che ci sia un unico interesse dei cittadini, che non esista destra e sinistra e che esiste un unico modo di amministrare una cittadina, sono ugualmente scelte arbitrarie e quindi politiche.
Ad ogni modo, c’è un livello della discussione utile a tutti per chiarire meglio questo tema. Rivedendo tutto questo discorso attraverso le categorie di Concreto e di Percepito, possiamo scorgere un comportamento lampante di questi soggetti. Sul piano del Percepito, abbiamo già detto che l’affermazione «Sono un amministratore, non sono un politico» coscientemente, restituisce certe e ben definite emozioni, valori e aspettative, specie in contrapposizione con il mondo politico in genere. Sul piano del Concreto, cioè dell’azione amministrativa, i soggetti che fanno propria la suddetta frase agiscono e decidono arbitrariamente (come è giusto che sia) su quella che deve essere la direzione politica da dare all’amministrazione stessa. La decisione politica poi viene resa realmente concreta dal vero personale tecnico-amministrativo.
Bisogna poi aggiungere che il grado di consapevolezza del singolo amministratore fa molto. Amministrare la cosa pubblica può essere cosa facile, come molto complessa. Ci sono amministratori comunali o regionali che si fermano alla gestione contingente o addirittura quasi soltanto degli affari correnti. Ce ne sono altri, invece, che prendono il loro incarico consapevoli di tutte le possibilità che lascia aperto il decidere quale direzione la comunità debba prendere per svilupparsi ed esprimersi. Come al solito, anch’esse, scelte politiche.
Allora forse prima di farsi conquistare da visioni totalizzanti e superficiali, in definitiva, i cittadini dovrebbero prendersi del tempo per riflettere in merito alle affermazioni che subiscono. Probabilmente la rimozione del conflitto e la conseguente omogenizzazione dell’azione politica, in prima battuta possono essere considerate prospettive desiderabili. In realtà, sono l’espressione di un determinato modo di fare che tenta di ridurre la complessità sociale in maniera del tutto superficiale e distruttiva. Il conflitto politico è una risorsa imprescindibile per sviluppare, mediare e sintetizzare nuovi e più efficaci metodi di amministrazione, per alzare il livello del dibatti politico e della stessa classe politica e, in definitiva, per vivere attivamente la propria comunità.