Pubblico un articolo di Federico Rufini, mio grandissimo amico, compagno e membro fondatore di MenteLocale-ODV, l’associazione che abbiamo pensato e costruito per favorire la partecipazione politica sul nostro territorio, sulle emozioni provate a contatto con alcunə bambinə saharawi.
Questi sono stati giorni caldi, giorni in cui ci siamo domandati dove fosse il giusto nel mondo. Oggi sento il profondo bisogno di sviscerare il tema del disagio del popolo saharawi, passando attraverso l’esperienza associazionistica dell’accoglienza e di quelle che sono le necessità di un mondo così lontano dal nostro quotidiano ma che sistematicamente, come l’inesorabile scandire di un orologio che batte il tempo, ad ogni contatto, ti squarcia il cuore. La macchina dell’accoglienza è piena di falle, è una rete così ampia che impiglia tutti, idealisti, religiosi, politici, attivisti e persino nessuno. Si perché noi siamo nessuno finché non ci apriamo al mondo e non ne scopriamo le sfaccettature più recondite. Nel corso della mia breve esperienza, ho conosciuto questo popolo attraverso gli occhi dei suoi piccoli figliə e ne sono rimasto incantato e, al contempo, disgustato. Il loro approccio alle cose è naturale, danno per scontato che la vita è un qualcosa che deve essere vissuta senza domandarsi se è giusta o no. Semplicemente, il costante contatto con la sua durezza li vede nascere già temprati dalla sua indifferente “equità”. Conoscerli è una ricchezza che ti lascia senza fiato e, poi, lasciarli tornare ti sconforta perché la vita non ha più lo stesso valore, i piccoli problemi quotidiani scompaiono nell’immensità della loro ingenua volontà di sopravvivere ad un mondo, che loro non hanno scelto di vivere, con le regole che – noi occidentali – abbiamo contribuito a creare. La soluzione definitiva non c’è – o meglio – è così lontana dall’essere trovata nel breve periodo che non avremo tutti il piacere di vederne l’applicazione, ma c’è un modo che può unire questo sentire le ingiustizie nel mondo, questo lasciarsi trainare dal desiderio di vedere la felicità di un popolo instancabile nella ricerca di una terra che li ospiti senza la paura di cadere preda di interessi di altri popoli, meglio organizzati e più feroci. E noi, prede del nostro ricco destino del primo mondo, abbiamo il privilegio di lavorare affinché domani, ognuno di questi figli del Sahara sia artefice del suo destino. Non ci sarà mai – forse – un mondo giusto, ma dedicare ogni risorsa possibile, anche solo fisica, per realizzare una generazione di figli del deserto consapevoli del fatto che il mondo sa che sono una ricchezza per noi più di quanto noi saremo per loro, che le mani vanno tese per elemosinare amore e che non c’è libertà più grande di dedicare la propria esistenza a salvare il pianeta dal disegno di distruzione che i governi propugnano con gloriosa pomposità, accogliendone più che possiamo, avendone cura e ridistribuendo la ricchezza di cui godiamo senza merito, perché loro possano domani portare a noi i loro figli e i figli dei loro figli e salutarci da pari, in un mondo di cui tutti noi siamo cittadini, senza distinzione di sesso, razza, orientamento religioso e politico. Oppure possiamo restare nel recinto, al sicuro dai sentimenti e dal rischio di amare e rimpiangerlo quando di noi non resteranno che le membra stanche di una vita non vissuta.